Dal girone infernale degli scialacquatori al gioco dei dadi nel V canto del Purgatorio: anche se non tutti lo sanno, nella Divina Commedia si trovano diversi riferimenti al gioco e ai giocatori d’azzardo. Nel suo Inferno Dante prevede una pena precisa per ogni tipo di peccato.
A ognuno il suo
Secondo la legge del contrappasso, i rei devono scontare una punizione che consiste nel contrario della loro colpa o è in analogia con la stessa. Gli ignavi, per esempio, che condussero una vita indolente e “che mai non fur vivi”, si trovano nell’Antinferno insieme agli angeli che durante la ribellione non si schierarono nè con Dio nè con Lucifero. Proprio per contrasto all’indolenza e a un’esistenza vissuta senza infamia e senza lode, vengono fatti correre nudi punti da vespe e mosconi, inseguendo una bandiera senza insegna. I lussuriosi, tra i quali i celebri Paolo e Francesca, sono travolti dalla bufera, come lo furono in vita dalla passione: “La bufera infernal, che mai non resta / mena gli spirti con la sua rapina / voltando e percotendo li molesta”.
Giocatori e suicidi nello stesso girone
I giocatori d’azzardo, infine, si ritrovano nell’XI canto dell’Inferno. Dante e Virgilio hanno appena fatto visita al sesto cerchio, quello degli eretici. Sull’orlo del sesto cerchio il poeta latino spiega al “collega” fiorentino come è organizzato l’Inferno: fuori dalle mura di Dite, divinità che nell’antichità presidiava l’oltretomba pagano, dal secondo al quinto cerchio, vengono puniti gli incontinenti. Nel basso Inferno, all’interno della città di Dite, vi sono invece gli eretici, i violenti contro il prossimo, se stessi e le proprie cose, contro Dio, natura e arte, i fraudolenti con chi non si fida e con chi si fida, e i traditori. I giocatori d’azzardo sono collocati tra gli scialacquatori, nel secondo girone del settimo cerchio (violenti contro se stessi), in compagnia dei suicidi. Entrambi si trovano in una macchia cespugliosa.
78 carte da interrogare
Proseguendo nella lettura dell’opera, all’inizio del VI Canto del Purgatorio Dante fa riferimento alla zara, un gioco d’azzardo popolare nel Medioevo, nel quale si utilizzavano tre dadi a sei facce. Le origini di questa parola, ancora oggi non del tutto chiare, vengono fatte risalire all’arabo zahr (dado). Dalla stessa radice deriverebbe quindi anche “azzardo”. I giocatori avevano a disposizione tre dadi: vinceva colui che riusciva a prevedere il risultato del proprio lancio. Il risultato era un numero compreso tra tre a diciotto: in base alle leggi di probabilità si avevano maggiori possibilità di ottenere 10 o 11.
“Ben 27 combinazioni possono far uscire queste somme” ricorda il blog Naturamatematica in un articolo sul gioco della zara nella Divina Commedia. I numeri 3 e 18, invece, avevano la minore possibilità di uscire (uno a 216). Alcuni sostengono che Dante farebbe riferimento proprio a queste leggi, che il perdente citato nel Canto impara sulla sua pelle, rimanendo poi da solo a ripetere il lancio dei dadi: “Quando si parte il gioco della zara, / colui che perde si riman dolente, / repetendo le volte e tristo impara”. All’epoca del poeta fiorentino, infatti, queste conoscenze non erano alla portata di tutti.
Accerchiato dalle anime
Il Vate e Virgilio incontrano le anime del Purgatorio: come la folla si accalca attorno a colui che vince al gioco della zara, scrive Dante nel suo poema, allo stesso modo le anime del Purgatorio lo “assediano” con le loro preghiere. Dante le allontana con le sue promesse: “Così mi trovavo io in quella fitta folla di anime ostinate / volgendo lo sguardo ora da una ed ora dall’altra parte / e facendo loro promesse me ne liberavo”. Dante ricorda a Virgilio che lui stesso nell’Eneide aveva messo in dubbio l’utilità di pregare per i trapassati e questi gli risponde che all’epoca in cui scrisse il suo poema si riferiva alle preghiere di uomini pagani, che non erano sotto la grazia di Dio.
Fortuna e probabilità
Ma torniamo al gioco della zara: avendo il dado sei facce, la possibilità che un singolo numero esca è uno a sei. L’unico modo per ottenere 3 o 18 con il lancio di tre dadi è che ne escano tre uguali con il numero uno o il numero 6. I tre dadi vengono considerati come tre variabili indipendenti. “La regola della probabilità che si verifichino contemporaneamente due o più eventi indipendenti prevede di moltiplicare le singole probabilità tra di loro” spiega Naturamatematica.
In questo caso, quindi, il calcolo delle probabilità per i numeri tre e diciotto con il lancio di tre dadi viene effettuato moltiplicando la probabilità sul singolo dado (1/6) per il numero di facce del secondo secondo dado (1/36) e il terzo dado. Il risultato dà appunto 1/216. Per 4 e 17 le probabilità sono leggermente superiori (tre a 216). Anche questi due numeri possono essere ottenuti solo attraverso due uniche addizioni (1+1+2 e 6+6+5).
Ma il numero di combinazioni ottenibili con il lancio dei dadi, ricorda sempre Naturamatematica, è superiore: “Infatti sono altrettanto valide, nel caso del numero 4, le combinazioni 1+2+1, 2+1+1 e 1+1+2”. Lo stesso dicasi per il 17. Tutti e quattro i valori (3, 18, 4 e 17) venivano definiti “azari” proprio per questa minore probabilità di uscita.
Tutti sfidano la sorte
Anche il romanzo “Capitan Tempesta” di Emilio Salgari, pubblicato nel 1905 e ambientato alla fine del ‘500, inizia con una partita a zara. Riferimenti al gioco si trovano inoltre nella quarta scena del primo atto dell’opera “La Gioconda” (1876) di Amilcare Ponchielli (libretto di Arrigo Boito): “Tentiam la mobile / fortuna a gara / giuochiam a zara”.