Come si evince anche dai detti popolari, fin dai tempi più antichi l’uomo si è rapportato al gioco d’azzardo con un misto di attrazione e diffidenza. Numerosi proverbi lombardi trattano questo aspetto dell’esistenza, soprattutto per quanto riguarda il rischio e la perdita di denaro. Nella sua raccolta di proverbi lombardi pubblicata nell’81 con Edikronos, Giovanni Tassoni dedica un capitolo a “ozio, lavoro e gioco”. Per ogni proverbio Tassoni cita anche le varianti in uso nelle rispettive province.
Lombardi sgobboni
Un detto della Bergamasca prende come riferimento il gioco del lotto online per esaltare il lavoro ed elogiare la produttività lombarda. “Ambo laurà; ternu seguità; quaterna e sinquina, laurà de la sira a la mattina” (Ambo, lavorare; terno, seguitare; quaterna e cinquina, lavorare dalla sera alla mattina). Da leggersi anche come: non si tratta di fortuna o sfortuna, i risultati si raggiungono con il lavoro. Il proverbio bergamasco e le sue varianti, spiega Tassoni, sembrano tratti dal detto latino “Labor omnia vincit” (la fatica vince ogni cosa). Come testimoniano anche i proverbi raccolti alla fine dell’800 da Antonio Tiraboschi, il gioco del lotto non era ben visto nella Bergamasca a motivo della sua natura aleatoria.
La maledizione dei genovesi
Uno dei proverbi sul lotto è “Ün ambo al lòt, l’è la maledlssiù di Genoés” (Un ambo al lotto, è la maledizione dei genovesi). L’origine di questo detto è forse da ricercare nel luogo comune che vede gli abitanti del capoluogo di regione ligure particolarmente restii nello spendere il denaro. Così, un ambo può garantirci una vincita ridotta, portandoci però ancora a giocare nuovamente la piccola somma che abbiamo guadagnato e anche di più.
Mai puntare sull’81
La rassegna di proverbi bergamaschi sul gioco del lotto prosegue con “Mèt l’otantù e ’n scarsèla tó ghe n’avré mai gna ü” (Metti l’ottantuno e in tasca non ne avrai mai uno) e “I solć del lòt i va de tròt” (I soldi vinti al lotto vanno al trotto). Alcuni ritengono che sognare l’81 sia presagio di miseria: in base a ciò, puntare su questo numero non sarebbe quindi una scelta lungimirante. Sul terno invece, sono da segnalare “Terno sent, in scarsèla mai niènt” (Terno cento, in tasca mai nulla) e “Terno sinquanta, laurà fin che si scampa” (Terno cinquanta, lavorare finché si campa). Il controverso rapporto delle comunità montane con il gioco d’azzardo si evince anche da due proverbi di Sondrio e Como. Il primo è “Chi seguita a giügà, en malura prest el va” (Chi seguita a giocare, in malora presto va). Nel Comasco, invece, si dice “I dané de giögh fan minga lögh” (i soldi vinti al gioco non fanno luogo). Tornando alla provincia di Bergamo, si prosegue con “A nó zögà s’è sigur de ens” (Chi non gioca è sicuro di vincere) e “Chi nó öl perd, tralasse de zögà” (Chi non vuol perdere non giochi).
Sono tutti matti
La posizione riguardo al gioco del lotto pare invece più ambigua nel detto “Mat chi mèt e mai ehi nó mèt” (E’ matto chi mette, nel senso di chi punta, ed è matto chi non mette). Un proverbio simile si è diffuso anche nella provincia di Pavia: “Matt l’è chi giöca e matt l’è chi non giöca”.“Matto sarebbe colui il quale, avendo sognato tre numeri, non li giocasse, vedendoli poi uscire su tutte le ruote” scrive Tassoni.
Orso sporcaccione
In base a un altro detto pavese, “Chi giöca al lott par sucurs, al mustra i vargogn tenequàl a l’urs” (Chi gioca al lotto per bisogno, mostra le vergogne come l’orso). In questo caso si fa probabilmente riferimento al momento in cui il mammifero si tira in piedi sulle zampe posteriori, rendendo visibili i genitali. Resta comunque l’incognita di come questo animale sia entrato a far parte del linguaggio comune, considerato che ormai da secoli è difficile imbattersi in un orso, anche nelle zone più impervie della provincia di Pavia.
Testa sulle spalle
Un famoso detto italiano è stato ripreso anche nel dialetto bergamasco: “Chi è desfortünàt sö ’l zöc, è fortünàt in amùr” (Chi è sfortunato al gioco, è fortunato in amore). Un altro detto molto conosciuto è “Ol zöc l’è bel quando l’è cört” (il gioco è bello quando è corto), che suona un po’ come il più recente monito delle pubblicità “Gioca responsabilmente”. Meglio quindi avere la testa sulle spalle, se come si dice nella Bergamasca ma anche nel Bresciano, “Chi zöga de caprese, paga de borsa” (Chi gioca per capriccio, paga di borsa).
Il contentino per chi sta perdendo
E mai lasciarsi ingannare dalle vittorie iniziali considerato che “Chi èns i prim, caga i òltem” (Chi vince i primi, perde gli ultimi) e che “La prima l’è di sćèć”. Ossia: la prima vittoria è dei ragazzi. Per consolarsi coloro che hanno perso la prima partita dicono anche “La prima l’è di pötèi, la segonda l’è di piò bei, la tersa l’è a’ mò de quei” (la prima è dei ragazzini, la seconda è dei più belli, la terza è ancora loro).
Mai prestare denaro
Ma è sempre meglio non dare troppa confidenza ai compagni di gioco considerato che “Chi ’mpresta e che zöga, perd a’ la camisola” (Chi presta e gioca perde anche la camicia). Il concetto è espresso ancora più chiaramente nel proverbio toscano “Chi impresta sul gioco, piscia sul fuoco”. Nella sua semplicità, rende bene l’idea il detto “Quel che perd l’è biót, e quel che ens l’è ’n camisa” (Chi perde è nudo, e chi vince è in camicia).
Gioie e dolori al tavolo verde
I perdenti, comunque, possono abbandonarsi a una risata liberatoria, sempre se gli riesce e ne hanno voglia. Dice il detto “Padrù de grisnà chi perd” (Chi perde è padrone di ridere) ma anche “al zontagna l’è parét del pians” (Perdere è parente del piangere). E per non farsi spennare è bene stare all’erta: “Chi zöga, nó dorma” (Chi gioca, non dorme). Nelle province di Cremona e Mantova i giocatori superstiziosi dicono: “Partida remisa, partida persa” (partita rimessa, partita persa). Al tavolo da gioco, come in guerra, non si guarda in faccia a nessuno. Infatti, come dicono i bergamaschi “so l’ zöc al ga öl miga di complimènć” (Nel gioco non ci vogliono complimenti). Tuttavia, è sempre meglio non trascendere considerato che “Zöc de ma, zöc de vilà” (Gioco di mano, gioco da villano).
Il gioco della morra
Capitava e capita di trascendere, invece, con la morra, un gioco praticato fino a pochi decenni fa in molte regioni d’Italia. Come nel “Pari o dispari”, i contendenti aprono la mano veolocemente sul tavolo, decidendo di stendere il pugno o un numero variabile di dita. In contemporanea si grida la somma che si presume uscirà: vince chi la indovina. Il gioco è citato anche da Alessandro Manzoni nel VII capitolo dei Promessi Sposi, quando Renzo, Tonio e Gervaso si recano all’osteria, dove trovano tre bravi, due dei quali stanno giocando alla morra. Scrive Manzoni: “Questi pure guardaron fisso la nuova compagnia; e un de’ due specialmente, tenendo una mano in aria, con tre ditacci tesi e allargati”. La morra può essere giocata a coppie o a squadre. Per vincere è necessario avere una buona dose di fortuna ma anche di abilità per quanto riguarda la resistenza dei muscoli del braccio, la capacità di mantenere un tono di voce alto e di indovinare il numero di dita che distenderà l’avversario. Un detto bergamasco “la mura l’è mata” (la morra è matta) ne mette in luce la componente aleatoria.